Bandiera dell'ISIL
La bandiera nera dell'ISIL (public domain via WikiCommons).

Andrea Foffano, come riporta la presentazione in copertina, è studioso di Scienze Politiche ed esperto di Relazioni Internazionali. Ha un background da militare (paracadutista e membro delle Forze dell’Ordine, ha partecipato ad addestramenti con reparti di sicurezza), dal quale è partito per la sua formazione teorica (un master universitario in “Sicurezza e Intelligence” e un altro in “Criminologia e Sicurezza Urbana”) che lo ha portato ad insegnare presso l’Istituto Superiore per Operatori di Polizia Locale ANVU-ISOPOL, e a diventare formatore accreditato presso l’Europolis Lombardia. Ho conosciuto Foffano alle conferenze ed ai cenacoli dell’Alta Scuola di Competizione Economica (ASCE), diretta dal prof. Arduino Paniccia. Inizio col suo primo libro, L’ISIS, le recensioni alle pubblicazioni di geopolitica presentate dall’ASCE. N.B. come è tradizione, dico subito che la seguente recensione è una mia personale interpretazione di quanto scritto nel libro, e perciò non rispecchia necessariamente l’opinione dell’autore.

Questo volumetto è la sua “opera prima” come studioso di geopolitica e di Relazioni Internazionali. L’argomento è di scottante attualità: il nuovo “Califfato” proclamato il 29 giugno 2014 da Abu Bakr al-Baghdadi. Il libro è del 2015, quindi si riferisce all’apogeo storico del c.d. “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria”, noto a tutti come ISIS, poi “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante” (ad-Dawlah al-Islāmiyah fī ‘l-ʿIrāq wa-sh-Shām) o ISIL. Come è noto, attualmente il Califfato è in fase declinante, soprattutto grazie all’accordo a tre Russia-Turchia-Iran che ha permesso alla Russia di impegnarsi direttamente a fondo contro il nuovo stato – perché a tutti gli effetti di uno stato si tratta, anche se non riconosciuto dalla comunità internazionale.

Nonostante il sottotitolo, chi cerchi nel libro sconvolgenti dietrologie rimarrà deluso, ma l’opera offre qualcosa di molto meglio: una rilettura serrata, razionale e coerente del già noto che diventa una spiegazione molto più forte e “sconvolgente” di tutti i possibili “incredibili retroscena”.

Foffano mette in chiaro che due sono stati gli antefatti alla nascita e allo sviluppo dello Stato Islamico: l’occupazione e poi il ritiro americani dall’Iraq, e il fenomeno della c.d. “Primavera Araba”. Dietro alla Primavera Araba ci sono state le classiche cause delle rivolte popolari: crisi economica, disoccupazione di massa, rincari dei generi di prima necessità (colpiti allora da una enorme speculazione a livello globale), povertà diffusa. L’effetto domino partito dalla Tunisia si estende a macchia d’olio dal Marocco all’Iran. Nonostante l’uso esteso dei moderni “social media”, la Primavera Araba dimostra subito però di non essere quel tanto sospirato movimento di secolarizzazione e democratizzazione dal basso che qualche ingenuo commentatore occidentale auspicava. Le elezioni vengono vinte a man bassa dai Fratelli Musulmani e dai vari gruppi salafiti. In molti paesi viene imposta la Sharia. In Libia, il maldestro tentativo da parte di alcune potenze occidentali di modificare a proprio vantaggio le spartizioni dei pozzi petroliferi porta all’uccisione del colonnello Gheddafi, al quale segue il caos a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane.

La perfetta propaganda mediatica e su internet del Califfato lascia subito intendere sostanziosi finanziamenti e know-how dall’esterno. Gli occidentali, gli europei soprattutto, che avevano rimosso ed esorcizzato la morte violenta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (con la grande eccezione dell’ex Jugoslavia), sono sconvolti dalla brutalità e dall’efferatezza di esecuzioni sommarie che sono fatte apposta per terrorizzarli, così come gli attentati suicidi di gente inafferrabile perché non legata ad organizzazioni sovversive di tipo tradizionale. La propaganda dell’ISIS sfrutta alla perfezione le caratteristiche di drammatizzazione visiva dei media occidentali.

Come scrive giustamente Foffano, «il problema è che una guerra asimmetrica combattuta con mezzi di conflittualità non convenzionali, anche se a bassa intensità, è molto più pericolosa di una guerra tradizionale. Questo perché l’impatto mediatico della conflittualità non convenzionale sulla popolazione è sovente enorme, e il rischio di una destabilizzazione interna alla società è molto più alto» [p. 51].

Miliziani dell'ISIS, probabilmente 2015
Miliziani dell’ISIS, probabilmente febbraio 2015 (CC BY-SA 2.0 Alatele.fr via Flickr).

Foffano poi passa a trattare un punto fondamentale, ossia l’azione degli Stati Uniti nello scacchiere mediorientale e mediterraneo. È «una costante abbastanza tipica per gli americani» cercare di utilizzare gruppi di guerriglieri locali per ottenere un vantaggio geopolitico, e trovarseli poi contro [p. 53]. Segnatamente, «non è la prima volta che l’America prende per mano gruppi ribelli di guerriglieri locali, li arma, li addestra, fornisce loro supporto logistico e, quando geopoliticamente non fungono più allo scopo», li abbandona «al loro destino. E guarda caso dopo pochi anni […] se li ritrova sulla scena come acerrimi nemici: da alleati a vera spina nel fianco sullo scacchiere geopolitico mondiale. E l’America, dall’inizio della Guerra Fredda in poi, non ha fatto altro che collezionare questo tipo di situazioni» [pp. 57-58]. Foffano parla a questo proposito di “cavallo di ritorno”.

A tale proposito, a me personalmente (qui Foffano non c’entra), viene in mente un pensiero. Devo fare però subito una precisazione, a scanso di fraintendimenti o strumentalizzazioni di quanto vengo a dire.

Se mi è permessa una battuta, io non sono né un… figlio di Putin né uno dei tanti che giocano a fare il merikano anche se è nato in Italy. Per me gli Stati Uniti d’America non sono né il Messia della democrazia né il Satana dell’imperialismo. Sono uno stato, per sua fortuna potente, che ha come tutti gli altri stati i suoi interessi, che possono essere di volta in volta compatibili o conflittuali con gli interessi degli altri. E i suoi interessi li porta avanti con determinazione, anche se talvolta in modo alquanto discutibile.

Dato che è vero quanto dice Foffano, le conclusioni possono essere solo due: o la più grande potenza militare del pianeta è governata da inguaribili idioti, oppure i suoi interventi di peacekeeping non sono destinati a portare peace, ma altro. Qui mi muovo sulle sabbie mobili, ma facciamo l’ipotesi che lo scopo ultimo non sia la stabilizzazione in senso occidentale, ma la destabilizzazione tout-court. Allora non solo il “cavallo di ritorno” non è un circolo vizioso, ma diventa addirittura un circolo virtuoso: gli alleati di oggi, diventando i nemici di domani, garantiranno ulteriore caos. Qui però mi fermo: è solo un’ipotesi.

Il 19 marzo 2003 USA ed UK attaccarono l’Iraq partendo dal Kuwait. Iniziava quello che doveva rivelarsi il più grande disastro militare americano dopo il Vietnam. Il 1° marzo 2003, George Bush jr. profferì le sue due famous last words: «Mission accomplished», missione compiuta. Che non fosse per niente compiuta, anzi!, gli americani se ne accorsero ben presto.

Gli americani compirono poi un errore madornale, come spiegato da Foffano. Pochi mesi dopo la caduta di Saddam Hussein, il governatore civile delle autorità di occupazione, Paul Bremer, emanò un decreto che scioglieva di fatto l’esercito iracheno: 400.000 militari si trovarono di punto in bianco in mezzo ad una strada, privati perfino della pensione. Questi militari, per la maggior parte sunniti, saranno prima il serbatoio della resistenza armata alle truppe di occupazione, e poi forniranno i quadri e la forza militare da cui partirà il Califfato. Esso è nato infatti nell’Iraq sunnita, e si è successivamente esteso partecipando alla guerra civile siriana [pp. 91-92], che nel frattempo da scontro tra due fazioni interne al paese si era trasformata in un’intricata guerra per procura.

La risposta militare all’ISIS da parte delle grandi potenze è all’inizio tiepida: ognuna di esse ha qualcun altro da combattere in Siria prima del Califfato, il quale trova addirittura nella Turchia dell’islamista Erdogan, al quale interessano solo i curdi, un alleato nemmeno troppo occulto. In quanto alle monarchie sunnite del Golfo, hanno sostenuto direttamente l’ISIS soprattutto dal punto di vista finanziario, in funzione anti-iraniana. La necessità di contrastare l’Iran ha portato perfino al riavvicinamento tra Israele e le monarchie sunnite [p. 111].

ISIS inizio 2015
Cartina indicativa dello Stato Islamico alla sua massima estensione, circa dicembre 2014 – febbraio 2015 (CC BY-SA 3.0 Spesh531 via WikiCommons).

Il libro di Foffano è di tre anni fa, e nel frattempo le cose sono molto cambiate. Lo Stato Islamico è in forte declino. Era facile aspettarselo: finché le potenze che si combattevano in Siria avevano altre priorità rispetto al Califfato, questo poteva sopravvivere ed anche allargarsi; ma quando è diventato abbastanza grande da dare fastidio praticamente a tutti, è partita inesorabile la reazione militare. Il futuro non possiamo prevederlo, ma secondo me, anche se in procinto di essere sconfitto, il Califfato ha lasciato nei cuori e nelle menti dei musulmani salafiti un’esperienza storica che non potrà non avere conseguenze anche a lungo termine.