Hitler a Parigi - 1940
L'immagine emblematica della sconfitta di un paese: Adolf Hitler passeggia sotto la Torre Eiffel, 23 giugno 1940 (CC 3.0 Bundesarchiv via WikiCommons).

Nel maggio del 1940 la Francia venne sconfitta grazie ad un piano operativo messo a punto da uno dei più brillanti generali tedeschi del secondo conflitto mondiale, Erich von Manstein. I tedeschi ottengono la sorpresa strategica: nessuno all’alto comando francese aveva anche solo lontanamente pensato che la foresta delle Ardenne fosse attraversabile con i carri armati. Ed invece proprio nelle Ardenne i tedeschi posero il “centro di gravità” del loro attacco.

La disfatta

La “débâcle”, la disfatta: così è chiamata in Francia la sconfitta degli anglo-francesi nel maggio-giugno 1940. Una sconfitta pesantissima, paragonabile per molti versi a quella italiana di tre anni dopo. Infatti, negli anni intercorsi tra il giugno 1940 e il novembre 1942, la Francia dovette affrontare una situazione simile a quella italiana del 1943-45. Un armistizio umiliante, l’occupazione straniera, le ritorsioni dell’ex-alleato (Mers-el-Kébir), il collaborazionismo, la resistenza, la guerra civile tra Vichy e De Gaulle (come in Siria). Di fatto, la Francia di Vichy fu cobelligerante con i tedeschi, combattendo contro gli inglesi in Siria e Madagascar.

Il maresciallo Philippe Pétain, capo dello Stato Francese di Vichy, incontra Hitler il 24 ottobre 1940 a Montoire-sur-le-Loir (CC Bundesarchiv via Wikicommons).
Il maresciallo Philippe Pétain, capo dello Stato Francese di Vichy, incontra Hitler il 24 ottobre 1940 a Montoire-sur-le-Loir (CC Bundesarchiv via Wikicommons).

La Francia si salvò grazie al suo prestigio internazionale e al suo grande impero coloniale, che le garantiva uno status di grande potenza e quindi un ruolo anche nel dopoguerra, comunque fossero andate le cose. Questo fece sì che dapprima gli inglesi appoggiassero De Gaulle per dare una qualche continuità alla presenza francese in campo alleato; e poi che gli Alleati cooptassero la Francia riconoscendole formalmente lo status di potenza vincitrice, ignorando l’armistizio del giugno 1940.  Ma nel 1940-42 il governo di Vichy fu il governo legittimo della Francia, anche per gli USA che non riconobbero De Gaulle se non molto tardi e per molto tempo continuarono a tenere come ambasciatore presso il governo di Pétain una figura importante come l’ammiraglio William Leahy. Una cosa questa che l’orgoglioso De Gaulle si legò al dito e che fu l’origine lontana, negli anni Sessanta, della sua politica estera di autarchia militare della Francia. Fu Hitler stesso a togliere le castagne dal fuoco agli Alleati, occupando la Francia meridionale.

Un piano strategico perfetto, anzi geniale

Contrariamente a quanto comunemente si crede, l’esercito tedesco non era affatto largamente superiore a quello anglo-francese, né come numero né come qualità del materiale. Certamente la sconfitta dovette molto ad una sostanziale differenza di mentalità, sia come qualità di comando che come concezioni tattiche. Ma questo non basta; gli anglo-francesi si aspettavano un massiccio attacco corazzato, come quello in Polonia dell’anno prima, ed avevano approntato delle contromisure. I tedeschi si assicurarono, infatti, il successo non per la loro schiacciante superiorità (come fu poi raccontato per coprire le responsabilità del comando francese), ma a causa della eccezionale bontà del loro piano di operazioni nel suo complesso, e per la ben superiore abilità di comando delle truppe e di controllo della situazione sul campo di battaglia.

Sickelschnitt
L’uno-due tedesco: il primo attacco fa credere agli anglofrancesi di trovarsi ancora di fronte al vecchio piano Schlieffen; il secondo attacco taglia la parte migliore dell’esercito alleato, addentratosi in Belgio come previsto dal piando Dyle (www.strategietotale.com).

Adolf Hitler iniziò a pensare ad una grande offensiva ad Occidente subito dopo la fine vittoriosa della campagna di Polonia. L’establishment militare tedesco, per nulla convinto, lavorò su una riedizione del vecchio “piano Schlieffen” del 1914. Gli alleati però avevano previsto un’azione simile ed avevano già elaborato per contrastarla il “piano Dyle”, che prevedeva una loro avanzata in Belgio ed Olanda, dove avrebbero potuto attestarsi a protezione della Francia settentrionale utilizzando i numerosi fiumi come fossati anticarro naturali. A questo punto, un caso fortuito – perché la storia è fatta anche di questo – cambiò le carte in tavola: a causa di un incidente aereo, gli alleati vennero in possesso del piano d’operazioni tedesco. L’offensiva fu rimandata e i generali tedeschi dovettero rimettersi al lavoro.

Erich von Manstein (CC Bundesarchiv via Wikicommons).
Erich von Manstein (CC Bundesarchiv via Wikicommons).

Era la grande occasione per Erich von Manstein, Capo di Stato Maggiore di von Rundstedt e uno dei più brillanti strateghi militari del conflitto, per proporre la sua idea dello “Sichelschnitt”, il “taglio della falce”. Il piano di Manstein prevedeva che, invece di collocare lo “schwerpunkt (il “punto di gravità”, ossia il baricentro dell’attacco attorno al quale si sviluppa tutta l’offensiva) dell’offensiva in Belgio ed Olanda, come il piano Schlieffen faceva, esso doveva essere situato al centro, nella foresta delle Ardenne. I generali francesi consideravano “impossibile” l’attraversamento delle Ardenne con mezzi corazzati: uno dei casi più evidenti di come la pigrizia mentale, che porta ad adagiarsi su false sicurezze, sia per i comandanti militari il primo nemico da sconfiggere.

I principi strategici

Il piano tedesco incarnava in modo esemplare diversi principi strategici.

Panzer Ardenne
Un Panzer II, in primo piano, e un Panzer I attraversano una foresta, molto probabilmente le Ardenne, nel maggio 1940. I francesi non pensavano di trovarsi di fronte i carri tedeschi che sbucarono tra gli alberi come dal nulla (CC Bundesarchiv via Wikicommons).

La sorpresa: i tedeschi attaccarono in un punto (la foresta delle Ardenne) nel quale il comando francese non si aspettava un’offensiva.

L’inganno: per far credere che nulla era cambiato rispetto al vecchio piano Schlieffen, i tedeschi attaccarono, non in forze ma violentemente, in Olanda e in Belgio, facendo scattare il “piano Dyle”, evitando di disturbare troppo le truppe alleate con la loro potente aviazione, negli stessi giorni in cui mettevano a ferro e fuoco Rotterdam. Questo in modo da attirare il più possibile verso Nord le truppe alleate in avanzata.

La mobilità: secondo i canoni della blitzkrieg, la nuova “guerra lampo”, le divisioni corazzate dovevano incunearsi rapidamente e in profondità nello schieramento nemico, sostituendo la cavalleria con i carri armati e l’artiglieria con l’aviazione, senza aspettare la fanteria e l’ancora più lenta macchina della logistica.

L’iniziativa: l’attaccante, per poter vincere, non deve mai perdere l’iniziativa, cioè deve sfruttare la vittoria tattica fino in fondo, non fermandosi mai per alcuna ragione, a meno che non si sia fermati dal nemico. Alcuni generali tedeschi, come Guderian e Rommel, erano maestri nelle tattiche di avanzata.

Eben Emael, Fallschirmjäger
Fallschirmjäger (paracadutisti) tedeschi dopo la presa del forte belga di Eben Emael, 12 maggio 1940 (CC Bundesarchiv via Wikicommons).

La qualità: non riuscendo a motorizzare l’intero esercito, come invece riusciranno gli americani col loro nel 1944-45, i tedeschi concentrarono i migliori uomini e materiali in divisioni d’élite, le famose panzerdivisionen, destinate a scardinare il fronte nemico. Inoltre, in Belgio e in Olanda la presenza di truppe speciali, soprattutto paracadutisti, agì come un vero “moltiplicatore di forze”.

Il fronte al 16 maggio 1940 (United States Military Academy, public domain).
Il fronte al 16 maggio 1940 (United States Military Academy, public domain).

Ma molto più interessanti sono gli errori dei generali francesi, che saranno poi ripetuti nei mesi successivi, in modo ancor più maldestro, dai loro colleghi italiani.

L’attaccamento alle “lezioni” del passato. Mentre i tedeschi cercarono nuove tattiche, tra tutte lo sfondamento dei corazzati con l’appoggio dell’aviazione, e l’utilizzo di truppe d’élite aviotrasportate, i francesi rimasero legati alle concezioni difensive del 1914-18, ed emblema di questo fu la famosa “linea Maginot”. A dire il vero però, come giustamente fa notare Basil Liddell Hart, fu la parte “dinamica” e “moderna” del piano alleato, quella dell’avanzata in Belgio ed Olanda, a causare la sconfitta. La Maginot brillò invece per la sua inutilità: fu semplicemente aggirata, ed i tedeschi la attaccarono frontalmente negli ultimi giorni prima dell’armistizio solo per ragioni di prestigio. Altro esempio dell’attaccamento a concezioni sorpassate, l’utilizzo dei carri armati. I francesi non avevano carri peggiori di quelli tedeschi, anzi; li utilizzavano però come nel 1918, in appoggio alla fanteria. Non era solo pigrizia mentale. Era anche diffidenza verso l’originalità di chi propugnava idee nuove e sconvolgeva così il sistema gerarchico. E questo si accompagnava ad una forte mentalità, risalente alle scuole di tattica dell’Ottocento, che vedeva nelle regole dell’arte militare qualcosa di già codificato, di scontato.

Il fronte al 21 maggio 1940 (United States Military Academy, public domain).
Il fronte al 21 maggio 1940 (United States Military Academy, public domain).

Non avere un contatto diretto con la situazione sul campo. Il comandante in capo francese, Maurice Gamelin, evitava meticolosamente il contatto con i suoi subordinati più umili e per lui la battaglia era una serie di bandierine su una cartina geografica. La consapevolezza da parte di Gamelin di quale fosse la situazione era sempre distorta e mai corrispondente a quanto stesse sul serio accadendo in un dato posto in quel momento.

Il fronte al 6 giugno 1940 (United States Military Academy, public domain).
Il fronte al 6 giugno 1940 (United States Military Academy, public domain).

Dare per scontato che qualcosa sia “impossibile”. Molto spesso in guerra nulla è impossibile, se solo si ha sufficiente volontà di affrontare il problema e risolverlo. I francesi consideravano “impossibile” il passaggio delle Ardenne coi carri armati; i tedeschi invece, testardamente, risolsero il problema. I francesi si accorsero della testa di ponte sulla Mosa troppo tardi, e questo anche perché non avrebbero mai immaginato che i tedeschi avrebbero attraversato di slancio il fiume con i carri armati, senza aspettare l’arrivo della fanteria come ogni scuola militare insegnava. Ma la strategia ha un che di paradossale, come già diceva Sun Tzu: scegli la strada peggiore proprio perché è la peggiore, creando così un inganno e una sorpresa. Mai pensare che il nemico debba necessariamente comportarsi come faremmo noi in circostanze analoghe.

Char B1 bis
Il massiccio Char B1 bis testimonia la differente mentalità tra tedeschi e francesi. Robusto e ben armato, solo le prime versioni del Panzer IV potevano tenergli testa; ma l’armamento principale in casamatta e il treno di rotolamento “rétro” tradiscono subito una concezione tattica statica e difensivista, ancora basata sulla fanteria (public domain)

Superata la Mosa, grazie a Guderian i tedeschi si incunearono lungo uno stretto corridoio che li portò in pochi giorni al mare, tagliando in due le forze anglo-francesi e rinchiudendone la parte migliore in una grande sacca in Belgio. Se Manstein fu l’artefice del successo strategico, Guderian fu l’artefice del successo tattico, ignorando deliberatamente gli ordini che gli venivano dall’alto, di fermarsi e rinforzare le proprie posizioni. Invece sfruttò il più possibile il vantaggio tattico, avendo una conoscenza di prima mano dello stupore, dell’inazione e del panico francesi, finché fu lo stesso Adolf Hitler ad ordinargli imperiosamente di fermarsi. Sul perché di questa decisione, gli storici ancora al giorno d’oggi stanno discutendo. Fatto sta che fu Hitler a rendere possibile la ritirata di Dunkerque, che regalò alla Gran Bretagna un esercito, che, per quanto piccolo, poi riarmato dagli Stati Uniti, costituì l’ossatura del British Army in Africa Settentrionale, Birmania e infine Normandia. Come scrisse Liddell Hart, permettendo Dunkerque Hitler gettò un primo seme del suo crollo finale.

Una “histoire-bataille” non trascurabile

Marc Bloch
Marc Bloch (public domain via Wikicommons).

Uno dei grandi cambiamenti che vi furono nella storiografia della prima metà del XX secolo fu la critica alla storiografia tradizionale così come si era definita nel secolo precedente. Già la storiografia di stampo marxista la aveva messa in discussione con la sua teoria, peraltro sostanzialmente corretta, secondo cui le “sovrastrutture” politiche, culturali, religiose ed anche militari dipendevano dalla “struttura” economica del “modo di produzione” di una data società storica. Ma la vera svolta si ebbe con la École des Annales di Marc Bloch, che operò una “rivoluzione storiografica” che portò dalla histoire événementielle alla storia come la conosciamo oggi, attenta soprattutto alle “strutture” e con un occhio particolare per la vita quotidiana della gente comune.

Questo, soprattutto in un paese iperpoliticizzato come l’Italia repubblicana, portò la storiografia imperante, di matrice soprattutto marxista, a considerare la storia militare come una cosa “di destra” e perciò degna solo di nostalgici e generali in pensione. Arrivando perfino a forme di narrazione “alternativa” dei due grandi conflitti del XX secolo dove ci si faceva merito di aver parlato della guerra senza toccare argomenti militari. Il che però significa finire per trascurare il sostanziale – come si fa a parlare di una guerra senza toccare argomenti militari?

Si è prestata attenzione soprattutto ai grandi movimenti economici, sociali e demografici, considerando alla fine la storia tradizionale, quella delle battaglie, come qualcosa di epifenomenico ed accidentale. Ma se questo può essere vero nel lungo e nel lunghissimo periodo, rispetto al quale le grandi e tranquille correnti di profondità sono più determinanti delle onde superficiali del mare in tempesta, non lo è affatto nel breve e medio periodo.

“What-if”: cosa sarebbe successo se…

Mussolini 10 giugno 1940
L’ora delle decisioni irrevocabili (Public Domain).

Se la blitzkrieg tedesca in Polonia poteva essere ancora considerata un fatto episodico, il fatto che i tedeschi avessero sconfitto sul campo quello che era da tutti considerato il più potente esercito europeo in soli due mesi, era una cosa inaudita. Nel 1940, per effetto dell’esperienza della guerra precedente, la Francia era considerata da tutti la maggior potenza militare d’Europa. Battuta la Francia, i tedeschi avrebbero vinto la guerra. Uno dei grandi mantra della storiografia è «la storia non si fa con i se». Ma se nella primavera del 1940 l’esercito tedesco si fosse impantanato nelle campagne belghe e francesi come vent’anni prima, l’Italia sarebbe entrata in guerra? Con ogni probabilità no: Mussolini vi entrò proprio perché era convinto che la guerra fosse ormai agli sgoccioli. Egli conosceva meglio di quanto comunemente si creda la situazione delle forze armate italiane, le cui risorse erano state svenate da due guerre tutto sommato inutili – quella d’Etiopia e quella di Spagna – oltretutto combattute in un periodo di profonda crisi economica. Ma la Germania aveva battuto la Francia, quindi aveva vinto la guerra, e la partecipazione al conflitto sarebbe stata un fatto molto più politico che bellico. Contrariamente a quello che di solito si crede, Mussolini entrò in guerra non tanto per accaparrarsi un facile bottino – non era uno stupido e sapeva benissimo che una partecipazione poco più che simbolica come quella italiana non dava il diritto di pretendere mari e monti – quanto per evitare in extremis una perdita di credibilità agli occhi dei tedeschi. Che poi comunque la credibilità era perduta in ogni caso, perché la scelta di attaccare un avversario già sconfitto, correndo in soccorso del vincitore, era stata percepita da tutti, nemici ed alleati, come un atto di vigliacco opportunismo.

Insomma, a nostro parere non vi sarebbe stata un’entrata in guerra dell’Italia, non vi sarebbe mai stato un “8 settembre” e l’Italia avrebbe compiuto un percorso politico molto simile a quello della Spagna franchista. La vita di tutti noi sarebbe stata completamente diversa. Un piano strategico perfetto, magistralmente eseguito sul campo (a parte la mancata corsa verso Dunkerque che salvò l’esercito inglese), cambiarono la storia dell’ultimo conflitto mondiale e, di conseguenza, anche la storia dell’Italia.